La pittura di Raffaele De Rosa nasce da un’esperienza figurativa appresa alla scuola labronica, presto trasformata in uno stilema personale che rimaneva legato al reale però filtrato in un’ottica onirica.

In maniera progressiva si sposta verso l’attuale linguaggio, che in parte gli deriva da letture fantastiche ed avventurose tanto dei classici del passato, come l’Ariosto, quanto da Italo Calvino, soprattutto nel suo aspetto di studioso delle tra­dizioni popolari, ma ancor più dalle leggende, in special modo quelle della Lunigiana.

In questa terra è cresciuto e lì ha elaborato sin dall’infanzia il suo mondo fantastico, dal quale in seguito derivano alcuni dei suoi cicli più importanti come La Crociata dei Fanciulli, Pomarino e Le Favole della Lunigiana.

In questi paesi, situati nel territorio che da Fosdinovo, Fivizzano e Pontremoli arrivano fino all’antica città di Luni, la sua cultura di un bambino cresciuto in campagna è stata suggestionata dagli affreschi nelle chiese ed in ugual misura dai cantastorie ascoltati nelle feste popolari che incantavano con racconti epici e cavallereschi, illustrati con un tabel­lone che alle spalle faceva da scenografia.

De Rosa però ricorda che più che le figure vedeva con la propria immaginazione personaggi e scene che uscivano dalla bocca dell’affabulatore, dove le favole prendevano forma come in una quinta teatrale, così come accade nei suoi quadri dove di volta in volta muove i protagonisti quasi in un gioco di fotogrammi in cui le opere, con un preciso filo conduttore, compongono irrevocabilmente l’opera.

Questo tipo di formazione, questo stilema, questo modo di raffigurare sulla tela, hanno indirizzato la scelta dell’artista per una tematica così vasta ma allo stesso tempo così filologicamente collegata, che ben si sposa con l’indirizzo preci­samente dato dal titolo della Biennale: Fare Mondi.

Raffaele De Rosa, artisticamente e consapevolmente rinchiuso nel suo mondo fantastico e parallelo a quello del quoti­diano vivere, ambienta le sue opere in una realtà labirintica dove si intersecano antiche leggende, poemi cavallereschi, architetture pindariche, quasi in una versione contemporanea di un Paolo Uccello o di un Piranesi.

Proprio perché nel labirinto non si trova l’uscita ma non si arriva neppure nel centro, l’opera di De Rosa, oltre alla reminiscenze classiche, è contaminata da descrizioni di feudi del sogno immaginati da Howard Philip Lovercraft dove si descrivono città con le architetture che si perdono in altezze imponderabili, come la mitica Radar, oppure i mondi immaginati su Flash Gordon.                                                                 ‘ “

Non si può fare a meno però, guardando nella sua complessità la produzione di questo artista, di pensare ai racconti che gli abitanti del deserto riportano sulle oasi, concezioni che la mente autonomamente produce, spinta dall’esigenza e dal desiderio; proprio questo sono i mondi di De Rosa, un’esigenza quasi fisica di un’esistenza alternativa dove la costruzione umana convive e sposa quella naturale.

D’altronde anche i suoi sfondi, con quella tipica luce obliqua, che in qualche modo confonde lo scenario, sono come la Fata Morgana del deserto, il miraggio bellissimo, forse origine dei racconti che gli Uomini Blu fanno intorno ai fuochi.

Proprio per questa sua poliedricità, su Raffaele De Rosa non hanno scritto soltanto critici d’arte, ma anche antropologi come Pietro Clemente o Gastone Venturelli o poeti come Alfonso Gatto ed italianisti come Michele Feo.

“De Rosa ci dà qui elementi significativi di un raccordo non banale deH’immaginario con i nutrimenti profondi di una terra. Ci segnala gli elementi di una fedeltà paesistica che, rivissuta pittoricamente, si ritroverà intatta in molti scorci delle sue opere, aspri ed arroccati; e propone insieme il sogno e la trasfigurazione adulta di un immaginario infantile, al quale tornare con i mezzi di un linguaggio maturo e forse imprevisto nella dimensione dell’infanzia. Il sogno adulto che traduce in versione colta e raffinata il sogno di ragazzo: l’operare insomma di una trasformazione che è anche fedeltà alla radice di una ispirazione”, così scrive Pietro Clemente.

Raffaele De Rosa sembra ripetere all’infinito alcuni soggetti, proprio come fosse rappresentazione teatrale dove la quinta varia in maniera sfumata ed i personaggi o le figure fantastiche di mostri, ippogrifi e chimere, angeli, diavoli, fate e draghi si muovono dando vita alla storia.

Proprio per il legame dell’artista alla tradizione orale, egli declina il medesimo argomento numerose volte; d’altronde non dobbiamo dimenticare che anche Cenerentola veniva raccontata e ricercata in infinite varianti, basti ricordare che ne sono state pubblicate più di trecentocinquanta versioni, questo è tipico della tradizione delle favole.

Se De Rosa trasfigura architetture che nella loro classicità possiamo riferire a quelle del Piranesi, è anche indubbio che rimane tuttavia fedele all’insegnamento grafico di questo maestro. Meno conosciuta ma estremamente interessante è infatti la produzione grafica di De Rosa, che ha affrontato proprio nell’incisione ed anche nella litografìa, come nel ciclo II Mito e la Visione degli anni novanta, realizzandola senza disegno preparatorio ma avendo come modello il quadro dipinto, anche per la preparazione delle acqueforti.

Il disegno su carta infatti non è per lui preparatorio per l’olio ma casomai opera finita che viene dopo ed alle volte si ispira agli stessi quadri ad olio; ad esempio il ciclo L’Oro del Millesimo Mattino, che poi servì per creare, insieme ad un gruppo di antropologi, il volume omonimo basato sulla veglia.

Sui dipinti, tanto ad olio che ad acrilico, si vede chiaramente una parte all’apparenza disegnata ma che in realtà è rea­lizzata con il pennello sottile dove il segno va a sovrapporsi alla pittura per definirla in una maggiore iconicità.

Per la partecipazione alla 53. edizione della Biennale di Venezia, il padiglione Natura e Sogni ospita Raffaele De Rosa in uno spazio aperto, di continuo transito per quanto alfinterno di un edifìcio universitario. È inusuale collocare un dipinto all’esterno, tuttavia questa scelta, che comporta anche delle soluzioni logistiche particolari, è stata fatta per far convivere il dipinto riferito ad un’architettura fantastica ed utopica con la conformazione della struttura cittadina. Ledifìcio dell’Università è uno spazio moderno all’interno di Venezia, che già ha subito una variazione nella sua fun­zione e che aveva affascinato un architetto del calibro di Le Corbusier che su questo ex macello aveva progettato un ospedale per il quale era già stato realizzato il disegno.

Le opere di De Rosa sono inserite in contenitori di plexiglass che permettono di vedere i quadri sia di fronte che nel retro, dove appare la trama della tela viva, non provocazione ma esaltazione dell’oggetto, come se questa fosse nata lì e sorgesse direttamente dal basamento, costruzione nuova e fantastica del reale.

di Gregorio Rossi