(Nicola Micieli)
In altri miei scritti – il capitolo di un libro dedicato a venti artisti toscani (Incontri, Pisa 1980) e la presentazione al catalogo di una mostra personale (Favole della Lunigiana, Pisa 1983) – mi sono occupato con ampiezza di argomenti e una certa penetrazione analitica, delle solenni e squisite apparecchiature teatrali in cui consiste l’universo visionario di Raffaele De Rosa, uno dei pittori fantastici italiani di più fertile vena creativa, abile e di felice risoluzione tanto nella pittura quanto nella grafica – aspetti del resto complementari e strettamente interagenti nella pratica formativa dell’immagine – e natural-iter illustratore, ossia dotato di un repertorio iconografico e di uno stile come pochi altri idonei a tradurre in immagini evocative e suggestive luoghi e figure simboliche della tradizione narrativa, e specialmente favolistica, sia occidentale che dell’Estremo Oriente. Dopo oltre un decennio, dunque, ritorno volentieri sull’argomento, avendo in questo frattempo seguito l’artista costantemente, ma da un osservatorio discreto e appartato.
Devo dire che alla verifica delle opere, in questa sede raccolte intorno a un nucleo ispiratore ideale che è il “pianeta” Pomarino, ovvero il microcosmo lunigianese di un’infanzia vissuta a occhi sgranati, a succhiare i racconti popolari e a crescere con dentro un bisogno pressante di favoleggiare, non mi pare mutata la sostanza sia figurale che poietica della sua pittura. Certo vi è stata un’evoluzione formale, ma non di tale entità da risultare rilevabile al primo sguardo. De Rosa ha maturato assai precocemente il proprio mondo di visione, e gli strumenti linguistici atti a estrinsecarlo, e non ha mai avvertito il bisogno di operare mutamenti stilistici considerevoli, tanto meno svolte radicali nella sua pittura, avendola perfettamente adattata alla propria sensibilità e, aggiungerei, addirittura alla propria struttura mentale. Sicché nel tempo ha mantenuto una costanza che corrisponde alla tenuta psicologica e culturale della sua personalità.
Le mutazioni, dunque, sono percepibili solo a uno sguardo ravvicinato e comparativo.
Si è affinato e come ammorbidito il disegno. Si è fatta più sensibile e cattivante la linea, dalla quale scaturiscono come filamenti serici quei rabeschi in cui scorgevo, allora, l’ordito e la trama di un tessitura, che dicevo simile a quella degli arazzi franco- borgognoni del XIII e XIV secolo. E altresì divenuto più terso e netto il colore, sia che si dispieghi in larghe campiture liquide, che lasciano scorgere, in trasparenza, la complessa rete d’un décor di memoria diffusamente simbolista e liberty, sia che si frantumi in tocchi e filamenti, nelle riprese a corpo più denso e a timbro acuto o nelle accensioni della luce, che a grumi o fasci investe e attraversa l’immagine, creando sovente fascinosi giochi da acquario, se non da animazione elettronica.
Anche sul piano compositivo vale il medesimo avvertimento. Non sono mancate le variazioni, ma occorre desumerle dal confronto delle immagini poiché riguardano soprattutto l’ampiezza e l’articolazione degli impianti architettonici, che oggi appaiono sovente maestosi e si configurano come vere e proprie rappresentazioni o progetti di città ideali, per lo più sorgenti dalle acque o arroccate, come nelle improbabili vedute lunigianesi, su coste montane che dirupano al mare o lo lasciano presagire, il mare, per un qualche segnale atmosferico, una luminescenza cristallina del cielo o altre ineffabili tracce.
A una scenografia così grandiosa e stupefacente, sul “palco” non potevano corrispondere che movimenti e direi coreografìe complesse e persino artificiose, ordinati con una regia assai sensibile alla macchinosità delle apparizioni e degli “effetti speciali” finalizzati alla stupefazione e allo straniamento. L’esito è da coinvolgimento globale dello schermo o cubo scenico che dir si voglia. Si ha l’impressione di un affollamento e di un’estrema animazione non solo quando lo spazio è invaso da una folla di comparse e di comprimari, ma anche quando un solo o pochi personaggi siano interessati all’azione drammatica, che è poi sempre soprattutto un’ostentazione di gesti, di costumi, di attrezzatura da grande parata gotica, più che un vero e proprio movimento.
Lo spazio risulta animato nella sua totalità, con una sorta di barocca contiguità e proliferazione degli elementi decorativi che lo percorrono in ogni direzione, e mutano forma trapassando l’uno nell’altro, a qualificare qua l’ondulazione dei flutti fluviali o marini, cui contrastano i destrieri dalle criniere ricciute e dalla bardatura doviziosamente ornata, montati da cavalieri non meno solari nella folgorante bellezza delle loro armature finemente incise e niellate, là un prospetto di terra invasa da una lussureggiante vegetazione, davvero invadente e ubiquitaria, capace di insinuarsi laddove una superficie si renda disponibile ad accoglierla come foglia o fiore o convolvolo o ramo flessuoso.
Ebbene, registrate le variazioni formali, e confermata la continuità delle soluzioni figurali, che De Rosa ha elaborato attingendo con grande capacità di sintesi a testi di alta qualificazione storica, sui quali continua ancora oggi a esercitare lo sguardo e la mano, e dico Dürer, Paolo Uccello, Andrea del Castagno, Mantegna, Piranesi, rimangono da verificare i materiali poetici e simbologici di cui l’immaginazione si serve per spiegare le proprie vele. Ecco, a compulsare il catalogo delle pièces rappresentate, il repertorio delle favole e dei miti affrontati, insomma il leggendario qui celebrato, mi sono convinto che quel che conta, per il nostro artista, non è il contenuto narrativo, quanto piuttosto l’imbanditura scenica, la spettacolarità dell’evento visivo.
Certo De Rosa non ha mancato di fare buone e specifiche letture, dai primi anni Settanta a oggi. Non occorre nemmeno affaticarsi a individuare i “sacri” testi antichi e moderni che compongono la sua biblioteca di affezione: le fonti letterarie sono evidenti e appartengono, in pratica, all’universo della favola, che è sterminato per quanto sostanzialmente possa dirsi ridubile a strutture simboliche unitarie e ricorrenti in numerose culture, come ha insegnato Propp. E se non fossero trasparenti gli amori letterari e le filiazioni dei temi iconografici da topoi favolistici, ci pensa fartista a dichiararli a piene lettere, nelle intestazioni dei cicli pittorici e grafici. Un ruolo centrale nella genesi e nello sviluppo dell’immaginario di De Rosa lo ebbero dapprima II villaggio della Nuova Vita di Platonov e la trilogia cavalleresca di Calvino, libri fortemente pervasi di utopia e insieme straniti e stranianti, per quel loro mettere in campo figure simboliche di eroi che sembrano provenire da un altro mondo, per edificare il nuovo mondo, e che inquietano per questa loro, a noi incomprensibile investitura. Sono seguite le storie del Ciclo Bretone di Re Artù e i romanzi cortesi, il dugentesco Novellino una cui pregiata edizione, curata da Michele Feo, è stata illustrata appunto dallo stesso De Rosa, e l’epica ariostesca affrontata con un’eloquenza figurativa che ricorda la messinscena di Ronconi. Dalla prima (anni Settanta) alla seconda fase (anni Ottanta) della sua epica cavalleresca, De Rosa ha maturato il linguaggio e la qualità del suo mondo visionario.
Dallo schematismo robotico dei primi cavalieri, chiusi e indecifrabili nelle loro corazze puntute, minacciosi e inquietanti per quanto portatori di insegne che nel loro simbolismo esoterico allegoricamente rimandano a virtù civili e valori morali, è passato alla scioltezza e alla godibilità di una forma grafo-pittorica che, senza abbandonare l’originaria vocazione araldica e cavalleresca o neogotica che dir si voglia, si apriva a più grate e intriganti storie poetiche, a gesta e ad amori che alla valentìa guerresca alternano l’effusione sentimentale. Il tutto ambientato in luoghi incantati predisposti al gioco delle simulazioni e delle magie, ove si consumano eventi inspiegabili in un intreccio indissolubile di gioco, di eroismo, di crudeltà, di altruismo, di pazzia, di fede, per uno scioglimento catartico della storia, come sempre accade nelle fiabe.
Come si vede, siffatti materiali rivelano una cultura fortemente orientata, direi quasi monovalente. È un retroterra idoneo a qualsivoglia innesto narrativo: fondale a ricostruzioni arbitrarie di vicende storiche registrate, poniamo la battaglia di Campaldino, che ha ispirato un ciclo pittorico presentato da Tommaso Paloscia, e insieme di episodi notabili della mitologia, specialmente quella greca che in qualche modo informa e contamina anche episodi di altra appartenenza. Per simpatia, su una ribalta così attrezzata potrebbero esibirsi simultaneamente, con beata indifferenza al principio dell’unità aristotelica di luogo, di tempo e di azione, personaggi di derivazione e valenza diversissime, quali Don Chisciotte e Girolamo Savonarola, eroi invasati entrambi del sacro fuoco dell’utopia, ma quanto distanti nella manifestazione della loro “follia”! Quando calcano il palcoscenico di De Rosa, magari per una “partecipazione straordinaria”, come leggeremmo nei titoli di testa di un film, lo stralunato eroe di Cervantes e l’allucinato frate fiorentino diventano personaggi congeneri nell’ambiguità delle maschere loro assegnate dall’artista.
Il quale li usa come tipi universali per una rinnovata commedia dell’arte, pretesti per rappresentare, sotto specie di apparizione e manifestazione pittorica, le costanti psicologiche e del comportamento insite nella natura umana.
Non si può parlare, dunque, di specifico narrativo, quanto piuttosto di una vocazione fabulatoria che assume e metabolizza luoghi letterari e personaggi diversi in un continuum visionario di ordine spettacolare. La pittura di De Rosa è una grande parata in cui protagonisti e comprimari sfilano insieme, ed esibiscono a mo’ di insegne i propri ruoli, direi le proprie funzioni narrative, più che sviluppare un’azione drammatica individuabile come storia. All’osservatore il compito di raccogliere suggerimenti e mettere in moto la propria immaginazione, facendo capo a un momento qualsiasi dell’immane apparecchiatura visionaria ove santi e fanti, damigelle e cavalieri, animali e piante partecipano d’un unico rito esibizionistico, e con straordinario sincretismo si sovrappongono e si interconnettono in un pastiche così ben condotto da attivare imprevedibili percorsi di lettura, dilatazioni di senso, meccanismi associativi, proiettivi, affabulatori.
A circolare nei giardini lustrali che sembrano figurare l’Eden primigenio, e tra i mirabolanti edifìci in cui si esalta e trionfa un immaginario architettonico labirintico e piranesiano, si capisce insomma che l’occhio allenato del pittore è rapito dal dovizioso sfoggio di armature e costumi e festoni fioriti, più di quanto la sua mente non sia presa dalla fabula e dall’intreccio narrativo. Che la galleria dei personaggi chiamati a recitare a soggetto, l’inusitato corteggio dei cavalieri eponimi, delle dame consacrate dal mito, delle creature magiche e degli animali fantasticati, sono invenzioni di un artista che prende a prestito dalla letteratura i nobili paludamenti di personaggi e accadimenti evocativi perché fissati nella memoria collettiva, e le loro insegne araldiche, i loro simboli quali si evincono dai portamenti e dai costumi, per dare dignità e direi quasi legittimazione colta al proprio immaginario infantilmente stupefatto, ossia capace di una dilatante e non neutra meraviglia, come è nella poetica di Pascoli e di Fellini.
Non a caso De Rosa sovrappone agevolmente, senza alcun imbarazzo filologico, le memorie della nativa Lunigiana (una terra sovente evocata nelle opere, e nelle presenti elevata – con Pomarino – a centro ideale dell’azione fantastica), e le suggestioni letterarie da Goethe e da altri togati autori. In tal modo opera una sintesi di materiali fabulatori popolari e stilemi colti in cui mi par di scorgere un tratto distintivo della pittura elaborata dallo scorcio degli Ottanta a oggi. È una contaminazione che rilancia un meccanismo mitografìco a funzionamento circolare, quasi automa che si ricarica dal suo stesso interno movimento. L’arte fantastica, per sua natura votata all’ambiguità, consente certo ogni traslato, sino le illazioni e gli arbitri, talché non senza ragione potremmo interpretare come allegoria della moderna civiltà computerizzata il fantasmagorico apparato scenico inventato da De Rosa, per esibire cimeli ed emblemi alludenti alle umane qualità e aspirazioni e necessità, fìngendo l’incantamento e la stupefacente epifania di giardini e palazzi ove si muovono fantastiche creature, e si ha solo l’illusionismo inesorabile del congegno automatico.
Quale altra suggestiva finzione drammatica potrebbe, più di questa conflittuale compresenza di prassi e utopia nel segno totalizzante del mondo che è l’immagine di De Rosa, evocare i grandi temi dell’esistenza contemporanea, un’esistenza nella quale i miraggi e le promesse della scienza sono, ahinoi! sinistramente profilati su un orizzonte appunto di uomini-automi?
In realtà, l’artista dipinge ossessivamente solo i propri sogni, o i propri fantasmi, che non sono necessariamente persecutori. E se Don Chisciotte, Tristano, Savonarola nel loro ostinato vagare per castelli e acquitrini, foreste e labirinti, guidati da un’ideale cometa alla ricerca della luce e della verità, della Dulcinea e dell’Isotta che sono poi simboli delXanima assediata da tranelli e fingimenti, da maschere e mostri; se nel tortuoso viaggio attraverso i meandri della psiche i cavalieri per avventura incrociano i nostri aspri sentieri, voglio dire di noi uomini contemporanei, è solo perché il creatore di questi sublimi fantasmi, De Rosa, da uomo contemporaneo vive il suo tempo, e inconsapevolmente ne assume sino le inquietudini, figurandole nelle visioni di un sogno che sa di infanzia e di memoria incantata.